qui di seguito l’introduzione alla sezione di micro-narrativa che ho curato per l’antologia di webletteratura appena pubblicata dall’editore Il Foglio.

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Cosa hanno in comune i Fantaiku di Giulio Olleia, gli status facebook di Michelangelo Cianciosi, e le mie Storie da caffè, presenti in questa sezione? Oltre al fatto di essere pezzi di scrittura consegnati al web, intendo.
Beh, sono brevi – direte voi. Risposta esatta – rispondo io – ma incompleta: sono componimenti brevi, dotati di una precisa consapevolezza formale.

Andiamo con ordine. Si fa un gran parlare e scrivere della cosiddetta “twitteratura”.
Chi ne parla bene, dice che è un rinascimento letterario; in cui chiunque può scrivere qualunque cosa. Chi ne parla male, dice che è una barbarie letteraria; in cui chiunque può scrivere qualunque cosa.
In entrambi i casi, pare uno strumento potente consegnato nelle mani di individui che subito diventano soggetti scriventi. Non uso la parola “scrittori” deliberatamente, per restare criticamente neutrale tra le due parti. Preferisco indicare il loro punto di contatto, ossia l’osservazione che nella storia della cultura (nata, per inciso, con l’invenzione della scrittura) mai si era scritto così tanto.
Soggetti scriventi, dunque. Individuali o collettivi. Generanti un fiume in piena di narrazioni.
A questo punto, guardiamoci indietro, al secolo che ha coltivato più di ogni altro una passione smodata per le grandi narrazioni: l’ottocento. Un secolo totalmente invaghito del soggetto e della sua potenza. Pensate a Hegel e al suo storicismo dialettico. Ora associate al suo nome quello dell’idealismo filosofico e, subito dopo, quello del suo contraltare “sociale”, il marxismo. Poi allargate il campo al romanzo storico, e immaginate come colonna sonora di tutto questo le grandiose opere totali wagneriane. Nell’ottocento il Soggetto, individuale o collettivo, era maiuscolo: in grado di cambiare la Storia (maiuscola, pure); o, male che andasse, di raccontarla.
Una Storia di cui il Soggetto era in definitiva lo specchio, e viceversa.
Per raccontare – e raccontarsi – in tali e tante proporzioni, la struttura linguistica privilegiata era necessariamente il periodare ipotattico. Il pensiero umano si snocciola così, con concatenazioni lineari di causa ed effetto. E la sintassi ipotattica lineare ne è l’espressione linguistica fedele: una frase reggente, e di seguito frasi subordinate tra loro con tutti i legami di subordinazione previsti dalla sintassi stessa. In breve, costruzioni molto lunghe.
Con il novecento, qualcosa cambia. Le forme espressive iniziano a frammentarsi. Si cercano nuove configurazioni espressive per lasciar emergere idee nuove, e un nuovo modo di pensare. Ascoltiamo la musica di Anton Webern (chi non lo conosce googli, pls): nelle sue Sei Bagatelle per quartetto d’archi (1913) il suono vive soltanto nel proprio dialogo con le pause; e attraverso la tensione che ne scaturisce, la composizione musicale si apre alla paratassi.
Un po’ come nel montaggio filmico, la narrazione avviene nello spazio di confine tra una inquadratura e l’altra. Dalla giustapposizione, non dalla concatenazione. Il rapporto di causa ed effetto viene sospeso nella sua linearità logica e anche temporale. E allarga il suo campo semantico. Diventa una provocazione di senso, non dimostrazione.
La scrittura si costella così di frasi più brevi, coordinate tra loro; anziché subordinate. Mi spiego con un esempio, dall’espressionismo tedesco: la poesia di Trakl Im Winter (trad. it. di Vera degli Alberti e E. Innerkofler, D’inverno, in Le poesie, Garzanti, Milano, 1989): “Il campo risplende bianco e freddo / Il cielo è solitario e immenso / (…) Silenzio dimora in nere cime”. Ognuna di queste frasi è autonoma; il loro nesso, infatti, non discende da una logica di tipo sintattico, per cui il predicato di una frase regge il predicato delle altre. Al contrario, il nesso di queste frasi sta in quello che il predicato, di per sé, non vuole dire. Il campo risplende – il cielo è – silenzio dimora. Nella tensione di questi predicati si coglie il senso dell’intera poesia. Sono piani differenti, che non intendono collegarsi chiaramente, ma che si richiamano l’un l’altro attraverso l’utilizzo – coordinato, paratattico – di quei particolari predicati: il campo, attraverso il predicato risplende, si apre allo sguardo sulla luminosità del cielo, che quindi non ha bisogno di essere predicato come splendente, poiché ripeterebbe semplicemente il senso che già acquista dall’essere in tensione con la frase precedente: il cielo, di per sé, semplicemente è. A metà strada fra il campo ed il cielo – letterariamente e fisicamente – stanno le cime, in cui dimora, quindi, il plesso di predicati inerenti alle frasi precedenti (bianco e freddo – solitario e immenso), che Trakl attribuisce al soggetto logico, il silenzio. L’aggettivo nere, infatti, è attribuito alle cime, luogo in cui il silenzio semplicemente dimora: solo dalla tensione con un attributo che non gli è direttamente predicato, esso assume quell’attributo stesso quale indicazione del proprio senso.
Ho superato la metà del numero dei caratteri consentiti, per cui vado a chiudere.
Come avrete capito, se non vi siete già addormentati (internet può indurre un calo del tempo medio di attenzione a quello di uno snack – da cui l’espressione americana snack on media o media snacking – ma questa è un’altra storia…), la tesi che ho cercato velocemente di argomentare è che la twitteratura ha radici sia culturali sia formali più antiche e profonde di quanto si possa pensare.
Se non vi basta spingervi al primo novecento, cercate su wikipedia il poeta giapponese Basho: verso la fine del 1600 ha codificato la forma classica dell’haiku, una forma brevissima di scrittura poetica, una piccola cassa di risonanza della verità nascosta tra le pieghe dei suoi versi.
Ok – mi dirà qualcuno -, ma chi scrive su facebook / twitter / blog è in fondo un narcisista in cerca di facile popolarità. A questa diffusa obiezione lascio che sia il poeta Rilke a rispondere. Nel 1922, nei suoi Sonetti a Orfeo, scriveva: “Tutto ciò che incalza / sarà presto trascorso; / soltanto quel che indugia / è ciò che ci consacra. Parafrasato: la nostra parte più nobile, più sacra, è rivolta a creare qualcosa che abbia una durata, una persistenza, il che – nell’epoca dei social media – è decretato anche dal numero di likes che si riesce a raccogliere. 😉

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Il titolo di questo post non è un azzardo, credetemi. Ballard ha la capacità chirurgica di definire con il linguaggio i contorni delle probabilità dell’umano. Parte da un’osservazione semplice, come un’auto che sfonda il guardrail e finisce in una zona poco vista al di sotto del cavalcavia, e la osserva germinare come un batterio nel suo laboratorio letterario.

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Scoprii anni fa Adriana Zarri alla radio. Una voce sorridente. Intimamente femminile. Sottile ma decisa: lontana, ma ricca di tutto quello che ha incontrato lungo il percorso fino a qui. La stessa sensazione che ho ricevuto dalle sue pagine. Il conforto di un’intelligenza ispirata, che non parla mai per sé.

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Una vecchia campagna pubblicitaria diceva “leggi un libro prima che hollywood lo rovini facendone un film”. Qui è il contrario: speriamo che hollywood ne faccia un film, sarà sicuramente migliore del libro.
La storia del cuoco bohemien genio (ma non troppo) e maledetto (ma forse solo pirla) salvato dall’immedesimazione con l’autorità dispotica da cui in adolescenza cercava di scappare è un po’ loffia, e mi fa pena che la sua fortuna sia costruita su chi, come lui, si lascia schiavizzare in nome del “sacro fuoco”. Se cucina come scrive, i suoi piatti saranno tutti rovinati a metà della cottura.
Quando uscirà il film lo andrò a vedere. Il libro finisce in seconda fila.

pensiero evolutivo

29 aprile 2009

Senza parole

7 marzo 2009

Vodpod videos no longer available.

Senza parole era il mio stupore, qualche sera fa, al centro culturale svizzero in p.zza cavour, ascoltando Christian Zehnder. Mi sono intrattenuto a parlare con lui per un’oretta, dopo.

Senza parole era la mia attenzione nel sentirlo raccontare di quando, studiando da baritono, scoprì la diplofonia (e il nostro demetrio stratos) e poi si recò in mongolia a praticare il canto dei monaci (simile per certi versi alla recitazione dei mantra indu).

Senza parole era il suo canto ieri sera: un gorgheggiare di suoni, tutto il suo corpo teso nel far vibrare la colonna d’aria della sua “voce strumento”. tutto il corpo usato per cantare. La voce usciva gutturale, di testa, di petto, di diaframma. Spesso contemporaneamente. con gli armonici diplofonici che sembravano un digeridoo funambolico.

Senza parole era il clarinettista che lo accompagnava, Don Li. Un clarinettista amico di Nik Baertsch con cui ha pure suonato (si sta sviluppando una sotterranea new wave musicale svizzera a cavallo tra l’avanguardia, il jazz, il misticismo e la sperimentazione elettronica), che improvvisava con il clarinetto in si bemolle e soprattutto il clarinetto basso a livelli stellari: Dolphy meets Zorn meets Fripp (loop continui che ondeggiava con il suo mac e una tastierina che usava come sequencer). l’articolazione della lingua che usava l’ancia del clarone percussivamente con una pulizia e un controllo armonico cristallini. Il clarinetto usato come colonna d’aria per creare effetti rumoristici da mandare in loop progressivi e esponenziali stile Soundscapes.

Senza parole, vi dico. e chi conosce la mia logorrea sa che non è facile tenermi un paio d’ore in silenzio.


Tutto inizia con una fine. La bomba di Heathrow non pone fine soltanto alla vita della ex-moglie di David Markham, psicologo londinese e voce narrante del romanzo. Soprattutto, ne uccide l’innocenza. Ballardianamente, una frattura nel mondo esterno rispecchia una frattura nel mondo interiore dei protagonisti. Che si agitano come piccole cavie in un esperimento condotto di capitolo in capitolo dall’autore per dimostrarci che “la middle-class è il nuovo proletariato”. Una tesi contraddittoria; a misura del fatto che ai protagonisti non restano in fondo che le loro stesse contraddizioni. E l’inquietudine che ci attraversa mentre leggiamo è quella di scoprire che quelle contraddizioni sono già le nostre.
Con Millenium People, J. G. Ballard chiude la trilogia (dopo Cocaine Nights e Super Cannes) di detective-thrillers sui falsi miti del consumismo. Con un’eco di Fight Club, certo, ma con in più una lucidissima analisi delle contraddizioni del benessere che a rifletterci un attimo dovrebbe togliere il fiato. Buona apnea.

Qui di seguito la mail che ho scritto a Corrado Augias il 3 gennaio*.

 

Gent.le Corrado Augias, le scrivo per invitarla a portare il mento fra le ginocchia, assumendo una posizione completamente rannicchiata. Bene. Ora provi a fare un bel respiro. Difficile, vero? Naturale, ha la gabbia toracica completamente compressa. Chiunque se ne può avvedere facilmente. Dunque, perché leggo sull’inserto cultura di Repubblica di ieri, in un articolo sul rapporto tra religione cattolica e pratica Yoga, che tale posizione aumenta l’ossigenazione? Per inciso, il profeta Elia e i mistici che pregavano così rannicchiati, miravano – fra l’altro – proprio a ottenere l’effetto contrario: l’ipo-ossigenazione, stato che inibisce la mente vigile e predispone a un livello di coscienza “estatica”. Sia gentile davvero, Corrado Augias, e raccolga la mia provocazione: in realtà è un appello a tutti i giornalisti culturali italiani. Che non si scaglino solamente contro l’ignoranza infestante le nostre università e il nostro paese. Che facciano qualcosa di più. Magari, sentendosi in parte responsabili di tale ignoranza. Alimentata anche da errori dozzinali come il sopracitato esempio: frutto di una superficiale “googlata”, non so. Ma che non mi aspetto, assieme ad altre imprecisioni, più o meno gravi, in un pezzo pubblicato nella sezione Cultura di uno dei più prestigiosi quotidiani nazionali. Sullo stesso quotidiano, l’altro ieri, leggevo l’appello al referendum sul testamento biologico. Conosco – e personalmente condivido – la sua posizione in merito, gentile Corrado Augias, e per questo scrivo proprio a lei. Anche tale articolo contiene, secondo il mio modesto parere di filosofo e professionista del mondo della comunicazione (definizione che ho trovato proprio su google associata pure all’autore più giovane del pezzo), un eccessivo numero di cedimenti sia di forma sia di contenuto. Per questo insisto nel mio appello: giornalisti culturali italiani, siate responsabili. Per fortuna le atrofie dei muscoli cognitivi sono reversibili. Fatevene carico. Non basta iniziare il processo culturale. Occorre portarlo a fondo con la dovuta passione e cura. Altrimenti il popolo dei lettori dovrà sempre accontentarsi di un assai poco gratificante cogito interrotto.

 

* per la cronaca, Augias ha risposto e apprezzato la mail, ma il caporedattore cultura di Repubblica, a cui l’ha inoltrata, evidentemente ha deciso di non pubblicarla.

Alla Triennale Bovisa è in corso una mostra dedicata a “Guido Crepax. Valentina, la forma del tempo“.
Come tutti quelli che erano adolescenti negli anni ’80, ho conosciuto Valentina in TV prima che a fumetti: quante nottate trascorse con gli amici a fare rewind sulle scene più piccanti di Demetra Hampton nei panni (per lo più svestiti) di Valentina. Questa contingenza ha fatto sì che il mio approccio al personaggio di Crepax fosse fin da subito multimediale: televisivo e poi cartaceo.
Quale gioia, allora, leggere all’ingresso della mostra che lo stesso approccio – multimediale – ha guidato i curatori nel pensare il percorso del visitatore. Cito a memoria (del mio mac su cui ho fatto cut and paste): “Tra gli aspetti distintivi e innovativi di questo allestimento, la multimedialità (con elaborazioni video, punti interattivi e ambienti sonori che riproducono e amplificano l’attualità delle invenzioni linguistiche di Crepax e il suo ininterrotto dialogo col cinema), e una particolare relazione con il visitatore (che, grazie alle gigantografie dei disegni sulle pareti, alla proiezione di immagini e a speciali invenzioni interattive danno l’impressione di entrare fisicamente nello straordinario mondo creato dalla fantasia di Crepax). La mostra è articolata in sezioni tematiche (stanze), in cui le tavole originali dei fumetti si alternano a elaborazioni e interpretazioni multimediali”.
Beh, ma è fantastico! – mi dico – e varco la soglia della prima stanza, mosso dall’energia sinaptica dei miei ricordi adolescenziali.
Mi addentro nei corridoi dove echeggiano suoni e voci; nelle stanze in cui monitor occhieggiano ammiccanti e pruriginosi spioncini invitano a scoprire mini-monitor nascosti al comune pudore. Una grande mostra, davvero. Un’esperienza interattiva e multisensoriale. Immersiva, direi, se fossimo nel 2008. Ma non è così.
Siamo nel 1989. Non c’è altra spiegazione. Mini-monitor, schermi TV, voci nei corridoi: la dotazione tecnologica dei curatori della mostra proviene sicuramente dal 1989 (anno d’uscita di Valentina con Demetra Hampton sulle reti Mediaset). Le mie sinapsi si sono rilassate, rientrando nelle loro locazioni abituali, e hanno iniziato a secernere critiche. Primo, mi hanno stampato in mente due parole: augmented reality. Secondo, mi hanno ricordato che Valentina è di professione fotografa. Fotografa onirica. La fotografia filtra la realtà attraverso le ottiche dell’obiettivo. E Valentina usa questa lente per deformare, per aumentare la realtà, per aggiungerle un livello in più. Realtà aumentata, augmented reality, appunto.
Sia chiaro, non voglio mettermi a fare il curatore di mostre. Al massimo, il suggeritore nella buca. Quello che tira fuori i cartelli con le parole che gli attori dimenticano. E quindi eccomi qui, nella mia buca, a tirar fuori un po’ di link. Innanzitutto metaio, società che sviluppa tool per augmented reality, con cui sono state realizzati progetti molto convincenti come gli augmented reality books che rappresentano un fantastico modo i aggiungere un layer virtuale alla carta stampata. Poi anche il progetto Mini Cabrio, primo (che io sappia) esempio di AR advertising, sempre lavorando su mezzo stampa. Infine, Wikitude AR travel guide, uno dei 50 progetti vincitori dell’Android Contest, che permette di riconoscere e geolocalizzare quello che il cameraphone sta inquadrando, offrendo informazioni e varie amenità.
Tutto questo, insomma, per suggerire che esiste già la tecnologia che potrebbe rendere una mostra come quella sul mondo di Crepax non solo interattiva, ma addirittura immersiva. E soprattutto, per gratificare tutti quelli che come me, partendo da Valentina, hanno poi scoperto che anche la tecnologia è una delle cose più eccitanti che un uomo possa concedersi senza togliersi i pantaloni.